Si sta come in Montana, sugli alberi i bruchi (o anche, la corsa al vaccino)

Al rientro dalle vacanze, le mie piante sul balcone avevano così tanto bisogno d’acqua da fare pietà. Allo stesso modo anche il blog si è un po’ inaridito, ma le notizie sui vaccini per il Covid-19 lasciano un senso di smarrimento ideale per un articolo fresco e idratante. Se siete pronti, fate un bel respiro.

Un po’ di storia e un po’ di scienza, velocemente

Il primo vaccino fu sviluppato nel 1789 utilizzando pezzettini di pustole di vaiolo bovino. Terribile, quanto efficace. L’intuizione fu del medico britannico Edward Jenner, il quale osservò che alcune mungitrici di vacche risultavano immuni all’infezione del vaiolo, una piaga di cui ci siamo liberati solamente nel 1980. La protezione di queste donne era dovuta all’esposizione al vaiolo bovino, malattia meno severa della controparte umana.

I No-Vax li avrei capiti ai tempi dei pezzettini di pustole infilate nei tagli sotto la pelle

A differenza dell’immunità passiva che si ottiene attraverso l’utilizzo di plasma di pazienti guariti, la vaccinazione offre un’immunità attiva in grado di proteggere l’individuo da potenziali infezioni per un certo periodo di tempo. Nella medicina moderna, i vaccini si distinguono nelle seguenti classi: virus attenuati, virus morti, proteine del virus purificate (di solito quelle di superficie), proteine del virus sintetizzate in laboratorio (dette ricombinanti) e i vaccini a DNA. In generale, l’obiettivo è esporre la superficie del virus (intera o una sua parte) alle difese dell’organismo affinché sviluppi anticorpi in grado di riconoscere e neutralizzare la minaccia per contatto diretto. I linfociti B e T si attivano e memorizzano la minaccia per molto tempo: è un po’ come ammalarsi, ma senza la malattia. I vaccini a DNA, invece, sono un po’ diversi: si tratta di sequenze di DNA che permettono la produzione della proteina virale direttamente nell’uomo. Trasmettere materiale genetico nelle cellule umane, però, può essere complicato e si preferisce ricorrere a uno stratagemma della terapia genica: l’uso di vettori virali, ovvero virus che – in questo caso – trasportano il materiale di un altro virus. Un vettore virale eccellente è l’adenovirus – facilmente manipolabile dal punto di vista genetico e ben noto e studiato da tutti i laboratori.

Questo cattivo ragazzo di nome Spike

Il target di quasi tutti i vaccini in corsa per combattere SARS-CoV-2 è la famigerata proteina Spike, una struttura glicoproteica presente sull’involucro del virus. È una proteina di superficie responsabile dell’ingresso del virus nelle cellule e conferisce il celebre nome “coronavirus” per via dell’aspetto a corona del virione osservabile al microscopio elettronico. Nella data in cui scrivo l’articolo, 33 vaccini sono in fase di test sull’uomo e centinaia in via di sviluppo nei laboratori di ricerca. Anche se qualcuno è già sulla buona strada, attenuare o uccidere un nuovo virus per crearne un vaccino può richiedere molto tempo. I tentativi più rapidi cercano la scorciatoia attraverso i vaccini a DNA e, in particolare, i vettori adenovirali. Quasi tutti i candidati che hanno trovato risonanza nei media, infatti, sfruttano questo meccanismo: l’inserimento della sequenza che codifica per la proteina Spike all’interno del genoma di un adenovirus. Una volta costruito il vettore, il transgene della proteina Spike viene facilmente introdotto nelle cellule umane attraverso il processo di trasduzione. Qui, viene trascritto in RNA e poi tradotto in proteina, così da produrre molte copie della proteina virale in grado di scatenare la reazione anticorpale. In aggiunta, un adenovirus può essere ingegnerizzato anche per mostrare sulla superficie del suo capside la glicoproteina intera, utile anche in questo caso per il riconoscimento da parte del sistema immunitario.

La piattaforma ingegneristica del vettore adenovirale è versatile e può essere usata per qualsiasi tipo di antigene virale, inoltre ha caratteristiche di sicurezza ed efficacia tali da far presupporre la sua bontà e velocizzare la sperimentazione. La sperimentazione clinica è lo scoglio che non può scontare nessun tipo di accelerazione e presenta tre fasi critiche.

La famosa proteina Spike di SARS-CoV-2

La fase I è rivolta a una decina di pazienti, circa. Nel caso dei farmaci, siccome la tossicità è il parametro fondamentale di questa fase, la sperimentazione va fatta su pazienti sani, a meno che la malattia in esame non sia particolarmente grave e senza cure da permettere di saltare questo passaggio. Nel caso dei vaccini, i volontari sono sani per definizione, perché non avrebbe senso vaccinare un infetto, e l’interrogativo principale a cui i ricercatori devono rispondere è circa la sicurezza del vaccino. In questa fase, si valuta anche la capacità del sistema immunitario di produrre anticorpi in risposta al trattamento. In assenza di scrupoli, la fase I può essere associata alla fase II, dove i soggetti diventano centinaia e ci si interroga nuovamente sulla sicurezza del vaccino e se la risposta immunitaria dell’individuo è forte. In particolare, in questa fase si cerca di trovare il dosaggio corretto del vaccino, ragione per cui gruppi diversi di volontari riceveranno dosi diverse di vaccino per equilibrare l’effetto immunizzante con gli eventuali effetti collaterali.  La fase III raggiunge migliaia di volontari e si prefigge di rispondere all’obiettivo più importante: il vaccino protegge dall’infezione?

Come la corsa allo spazio, ma non sono razzi anche se fa rima

Di recente, abbiamo ricevuto la notizia che alcuni candidati hanno superato la fase II. Alleniamoci a ricordare che questa notizia significa che il potenziale vaccino è sicuro e produce anticorpi nell’uomo, ma rimane scoperto l’interrogativo fondamentale: funziona? Pensavo, ingenuamente, che lo sforzo per creare un vaccino avrebbe visto la collaborazione mondiale, ma ormai le notizie mi hanno portato a vedere il mondo diviso in tre aree tra loro nemiche, come in una distopia orwelliana.

Una rara e segreta diapositiva di Bill Gates che ci osserva attraverso il 5G

In Oceania, hanno fatto parlare di sé il candidato di Moderna e il vaccino Oxford, per le loro pubblicazioni di alto livello a conferma dei risultati di sicurezza ed efficacia post-fase II. Moderna è interessante perché, oltre a essere un’azienda i cui risultati sono cavalcati da Trump nella sua propaganda per le presidenziali, utilizza una tecnologia diversa da tutte le altre concorrenti. Il vaccino di Moderna è un mRNA, ovvero una molecola che deriva dalla trascrizione del DNA e, introdotta in una cellula, può subito essere tradotta in proteina. Naturalmente, anche in questo caso nella proteina Spike. L’approccio è innovativo, ma l’ingresso di un acido nucleico (DNA o RNA che sia) all’interno di una cellula non può raggiungere l’efficacia della trasduzione virale, ovvero della capacità che un virus ha di trasmettere il materiale genetico dentro una membrana cellulare. Moderna quindi risulta biotecnologicamente meno interessante degli altri candidati adenovirali, ma ciò non toglie nulla alla sua potenziale efficacia. L’azienda, infatti, ha diversi progetti anche in ambito di vaccinazione contro gli antigeni tumorali per addestrare il nostro sistema immunitario, fisiologicamente predisposto verso l’aggressione di microrganismi, anche verso la lotta contro tumori solidi. Tutti progetti, però, appena in fase I: la notizia positiva è che il successo della sperimentazione del vaccino per il SARS-CoV-2, in caso di risultati positivi, potrebbe accelerare gli altri interessantissimi studi. Pochi giorni dopo i risultati di Moderna, sono stati pubblicati anche i risultati del “vaccino Oxford” in collaborazione con Astrazeneca. Si tratta di un esemplare adenovirale su cui l’Europa ha gettato la propria scommessa con un accordo per 400 milioni di dosi. Sia Moderna che Astrazeneca hanno iniziato la fase III a inizio agosto e prevedono di terminarla a fine ottobre.

Sul fronte Eurasia, abbiamo Sputnik V sviluppato dal centro di ricerca Gamaleya. Il nome nasce sulla scia di un ricordo nostalgico del primato russo. Nel 1957 veniva lanciato Sputnik I, il primo satellite artificiale mandato in orbita. Negli anni a seguire, i russi avrebbero vinto tutte le tappe della corsa allo spazio tranne la più importante: l’allunaggio. Sputnik V è un vaccino che sfrutta un vettore adenovirale che ha superato bona fide i risultati di fase II (quando nel mondo della scienza si usa il termine bona fide, significa che non c’è lo straccio di un risultato). Eppure, la Madre Russia – dopo la somministrazione di Sputnik V alla figlia del Presidente Putin – pensa già di commercializzare il suo candidato presentandolo al mondo come “il primo vaccino per il Covid-19”. Il mondo, coscienzioso delle tappe fondamentali della sperimentazione clinica, lo boccia, sulla scia delle perplessità emerse anche da Svetlana Zavidova, capo dell’Associazione delle organizzazioni per gli studi clinici in Russia, che afferma sia ridicolo autorizzare la commercializzazione del vaccino sulla base dei pochi dati presentati dal laboratorio di Gamaleya. Le persone che in questo momento vengono vaccinate con “Sputnik V” sono cavie: è come se partecipassero a uno studio di fase III, ma anziché essere volontari sono inconsapevoli. Mettendo da parte l’infinita mancanza di senso di responsabilità da parte del governo russo, il vaccino assume un ruolo fondamentale nella narrativa di propaganda. Se non fosse già ovvio, è il sito di Sputnik V a darcene conferma, nascendo su una premessa che cito testualmente:

“Questo sito web è stato creato per fornire informazioni accurate e aggiornate sullo Sputnik V e per combattere la campagna di disinformazione lanciata contro di esso dai media internazionali.”

Cara e vecchia guerra fredda, ben tornata! Se qualche membro dell’intelligence mi sta leggendo, contattatemi: da sempre, il mio sogno è essere una spia doppio- o addirittura triplo-giochista. Sul sito “Sputnik V” si può accedere ad una serie di informazioni su Gamaleya e su come la loro piattaforma adenovirale sia già stata usata con efficacia per altri vaccini: MERS e Ebola. Attenzione, però: parliamo sempre di studi di fase II. L’aspetto interessante di Sputnik V è l’utilizzo di due vettori adenovirali: in molte vaccinazioni è necessario ricorrere a più iniezioni per generare un livello di immunizzazione desiderabile. Nel caso del vaccino russo possiamo dire a tutti gli effetti che i vaccini sono due, perché gli adenovirus utilizzati come vettori sono due.

Un manifesto pubblicitario del vaccino russo al passo con la moda

Infine, l’Estasia. La cara e antica Cina, di cui posso parlare male perché non ho TikTok installato sul telefonino, rincorre e forse addirittura supera tutti i suoi concorrenti. L’azienda, in questo caso, si chiama CanSino Bio, di cui non lascio il link perché, nel mio ultimo tentativo di accesso, antivirus e firewall mi hanno lasciato trentadue avvisi. Anche nel loro caso si tratta di un vettore adenovirale che trasporta le informazioni della proteina Spike. A questo punto, forse, è doveroso spiegare che i candidati sono tutti molto simili tra loro, ma non identici. Infatti, ognuno ha un suo brevetto e ognuno sceglie il suo adenovirus preferito. Ce ne sono di tutti i gusti, ognuno con un tropismo particolare. Inoltre, le modifiche genetiche contribuiscono alla varietà (e alla brevettabilità). Perfino il candidato tutto italiano di ReiThera, in sperimentazione allo Spallanzani, che un giorno forse ci verrà presentato in una puntata di Mela Verde, sfrutta un vettore adenovirale. La Cina inizierà la fase III ufficialmente su “volontari”, anche se immagino che gli Uiguri non siano ammassati nei campi di rieducazione mica per nulla. Se notate una leggera polemica in quello che scrivo, forse è causata dagli anticorpi che ho sviluppato autonomamente in difesa della loro spinta propaganda culturale fatta di bancali di mascherine, nello stesso periodo in cui il Dragone avrebbe dovuto informare l’OMS puntualmente su ogni aspetto della più grande crisi del nuovo secolo, ma si è limitata a farlo ogni volta cinque minuti prima dei notiziari nazionali.

Ecco come ci salveremo bona fide

Ma il vaccino ci salverà? A questo punto, direi di sì – ma bona fide. La corsa al vaccino per l’emergenza SARS fu fermata per il contenimento della malattia, perché naturalmente nessuna azienda (ma nemmeno nessuno stato) avrebbe trovato utile finanziare un vaccino che non si sarebbe utilizzato. Il Covid-19, però, da pandemico rischia di diventare endemico, quindi nulla fa presupporre la possibilità di contenimento. Finora, il regolamento speciale e le norme di buona educazione adottate da alcuni stati hanno permesso di mantenere la curva dei contagi sotto una soglia quasi trascurabile, quasi come un’influenza (scusate, non ho resistito). Non sappiamo, però, se i vaccini in arrivo saranno efficaci. Anzi, a voler essere onesti c’è un dato storico che bisogna guardare con attenzione. Nessun vaccino è mai stato sviluppato prima di cinque anni e quelli di cui abbiamo parlato fino adesso sono in sperimentazione da qualche mese. Inoltre, quest’anno la poliomelite arriva a darci una grande lezione su come funzionano queste cose. Qualche settimana fa, l’OMS ha annunciato che in Africa è stata finalmente debellata la poliomelite selvaggia. Per questa malattia, che causa paralisi e morte a breve termine nei bambini, fu sviluppato un vaccino dal medico Albert Bruce Sabin. Oltre a regalarlo, rinunciando a qualsiasi possibile guadagno dal brevetto, il vaccino di Sabin era orale e di facile somministrazione, ottimo per il controllo della malattia in certe zone del mondo con bassa o nulla assistenza medica. Purtroppo, il vaccino, per quanto efficace, a seguito di mutazione poteva riacquisire i tratti della malattia e dalla suddetta variante non esiste né difesa né cura. Oggi, con il successo delle campagne di vaccinazione e con un vaccino di recentissima scoperta in cui non è possibile la riattivazione, la malattia è ufficialmente eradicata, ovvero scomparsa. La lezione è che non sappiamo l’efficacia a lungo termine (o i guai!) di un vaccino. Nel caso dei vettori adenovirali, non dobbiamo temere la riattivazione della malattia perché l’adenovirus non è un coronavirus e, inoltre, è ingegnerizzato per essere difettivo nella replicazione. Però, esistono tanti ceppi di SARS-CoV-2 e una minima variante della proteina Spike potrebbe fuggire ai controlli immunitari. La fortuna di un vaccino sta nel riuscire a identificare una sequenza assolutamente necessaria per il virus che, in caso di mutazione, non è compatibile con la replicazione dei virioni. Questa sequenza deve anche innescare una risposta immunitaria forte nell’uomo e generare anticorpi in grado di neutralizzare la minaccia in caso di infezione. Insomma, fare un vaccino è un casino.

Albert Sabin, l’uomo che regalò il suo vaccino a tutti i bambini del mondo

Infine, sorge un altro dubbio. Così come sviluppiamo anticorpi per la proteina Spike, potremmo anche sviluppare anticorpi per gli adenovirus (o peggio ancora, potremmo già averli). Non conoscendo la durata dell’immunizzazione del vaccino, dobbiamo sperare che quando sarà necessario effettuare un secondo richiamo per la perdita di immunità alla proteina Spike, il nostro corpo abbia perso anche la memoria dell’adenovirus, altrimenti il suo inoculo sarebbe del tutto inefficace.

In ogni caso, l’ignoranza di chi non crede a ciò che vede è implacabile. L’epidemia di coronavirus vede aumentare i contagi, assieme alle conseguenti morti. Il primo vaccino potrebbe non avere la potenza necessaria a controllare con efficacia il virus, ma forse può tamponare la situazione. Forse non ci difenderà da tutti i ceppi di Sars-CoV-2, ma può difenderci dall’ignoranza di quelli che tanto la mascherina non serve, che tanto è solo un’influenza, che tanto è solo una grande montatura per farci prolungare gli abbonamenti di Netflix.

È in arrivo la seconda ondata

Non di Covid-19, però – ma di vaccini. Ebbene, i candidati adenovirali sono i primi vaccini che riusciranno a superare (me lo auguro per loro e per gli investitori) i test di fase III e a ricevere l’approvazione per l’immissione al commercio. Ippocrate ci salvi dalle strumentalizzazioni politiche e dai venti di guerra fredda tra i vari schieramenti nel mondo, ma i primi vaccini in arrivo non saranno di certo gli ultimi. L’unica ragione che potrebbe congelare la ricerca sarebbe il freno a mano degli investitori e la serenità dei mercati pronti a far viaggiare il mondo alla stessa marcia che avrebbe se non circolasse in giro un virus mortale. Appena scopriremo che i vaccini proteggono solo qualche fortunato, la ricerca continuerà a ricevere interesse e a sfornare nuovi candidati. Negli anni a seguire, arriverà una seconda ondata di vaccini che forse sfrutterà un meccanismo diverso da quello dei vettori adenovirali. Se davvero l’efficacia dei primi tentativi non sarà massima, possiamo presupporre che chi ha perso tempo, in questi mesi, nella ricerca e nello sviluppo di altri candidati tenga nel cassetto soluzioni migliori, maggiormente in grado di fronteggiare la malattia su scala globale. In ogni caso, accolgo a braccia aperta Moderna, Astrazeneca e gli altri in coda, per il sollievo che potranno dare ai mercati. Teniamo presente, però, che il vaccino ci può salvare dal virus e anche dall’ignoranza di chi non usa la mascherina (grazie all’immunità di gregge), ma è una via di uscita facile che ci lascia impuniti dalle nostre cattive abitudini. David Quammen, in Spillover, racconta di come alcuni bruchi maledetti in una cittadina del Montana «facessero il brutto e il cattivo tempo […] Loro continuavano a mangiare, crescere, cambiare pelle e cresce ancora. Marciavano su e giù per i rami facendo piazza pulita del verde cittadino, quasi fosse un’appetitosa insalata.»

Nonostante i bruchi (di falena) sopravvivessero a ogni possibile tentativo di disinfestazione, in una stagione scomparvero all’improvviso, divorati all’interno da un virus letale (nucleopoliedrovirus) che li faceva letteralmente scoppiare. Il virus assume il compito biologico di regolare i cicli di espansione e riduzione dei lepidotteri e, quando i bruchi raggiungono una bolla di sovrappopolamento, scatta come una trappola e li decima. Noi esseri umani abbiamo due cose in comune con i bruchi. La prima è che siamo troppi e maledetti, viviamo ammassati e ci moltiplichiamo a ritmo esponenziale. La seconda è che i virus rappresentano una grossa minaccia per la nostra esistenza. La differenza, l’unica che abbiamo e che porta con sé una speranza di salvezza, è l’intelligenza… unita alla possibilità di fare delle scelte. Vogliamo essere come i bruchi e crescere e mangiare senza preoccuparci delle conseguenze, oppure cominciamo a rivedere le nostre abitudini facendo attenzione alla minaccia dei virus e al surriscaldamento del globo?

Per parafrasare Giuseppe Ungaretti, lasciatemi dire: si sta come in Montana, sugli alberi i bruchi

Disclaimer: l’articolo contiene un link promozionale al libro “Spillover” di David Quammen, qualora decideste di inoltrarvi nella lettura del testo che aveva anticipato la grande tragedia del 2020 – e che mi sento fortemente di consigliarvi – potete acquistare l’ebook o la copia fisica dal link proposto così da supportare questo blog.

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